Le quattro giornate di Monza

Articolo Il Cittadino

18 marzo 1848

Monza, alla vigilia delle sue eroiche Quattro giornate, conta una popolazione di 18000 abitanti e sta vivendo una forte espansione economica dovuta al peso sempre maggiore che il fenomeno dell’industrializzazione va acquisendo in città. Le attività che danno origine al decollo produttivo di Monza, sono l’industria tessile e i cappellifici; solo questi ultimi contano nel 1838 ben 20 opifici con più di 1000 lavoratori. Ad incrementare questo sviluppo economico è la nascita della linea ferroviaria Milano-Monza, inaugurata il 17 agosto 1840 alla presenza del vice re Ranieri d’Asburgo. Sono realizzate importanti opere pubbliche che abbelliscono la città: nel 1838, sventrando un vecchio quartiere, è aperta la Via Ferdinandea (Via Vittorio Emanuele), nel 1842 è costruito il Ponte dei Leoni. Il potere municipale, che gode di una relativa autonomia, è affidato ad un Consiglio di 30 membri, scelti fra gli “estimati maggiori”, e alla Congregazione Municipale, presieduta dal Podestà.

19 Marzo 1848

20 Marzo 1848

Valeriana Maspero – Ghibellino di Modoezia

Un brano dal “Ghibellino di Modoezia” di Valeriana Maspero per chi ha voglia, pazienza e tempo per leggere.
<Ma proprio in quel periodo anche a Mediolano, città finora risparmiata, era comparsa la peste.
Si diceva che fosse un castigo di Dio per gli spregiudicati Visconti. Una delle prime vittime era stato l’arcivescovo Roberto. Ma Bernabò reagì subito, promulgando una ordinanza con le disposizioni per combattere il contagio: controlli alle porte, roghi, norme generali d’igiene per le strade e le piazze, leva obbligatoria di medici, infermieri e becchini pubblici. Lui trattava la peste come uno dei suoi nemici usuali: non aveva detto che anche Dio nelle sue terre poteva fare solo quello che voleva facesse?
E alla fine, in estate, la morte nera era comparsa anche a Modoezia. Era arrivata da Mediolano, con i soldati e i cacciatori che si davano il cambio al castello di Bernabò. Il consiglio dei Trenta aveva ordinato di chiudere tutte le porte della città e di accendere fuochi sulle mura, come avevano suggerito i dottori dell’ospedale di San Gherardo, per impedire al male di entrare sotto forma di miasmi putridi. Ma non era bastato.
Quando la peste era arrivata a Mediolano, anni e anni di epidemia in tutta Europa avevano contribuito a raffinare le cure, anche se non si era trovato alcun rimedio veramente efficace. Una cosa almeno i dottori avevano capito: che il contagio era un fluido invisibile che passava da persona a persona. Il medico Tomaso del Garbo affermava che era l’aria a portare il contagio e quindi se si presentava in casa la malattia, la prima cosa da fare era quella di cambiare aria, nel senso di andarsene proprio via dalla città. In seconda battuta il dottore bolognese raccomandava di non respirare l’aria degli ammalati, non avvicinandosi a essi e alle loro cose. Ma nessun medico immaginò mai che tutto aveva origine dal morso delle pulci dei ratti.
Tuttavia bisogna riconoscere che quei saggi erano stati fin troppo intelligenti. Avevano capito che esisteva un contagio e come il morbo si diffondeva tra la gente. Ma anche se avessero indovinato l’origine della malattia, non avrebbero avuto medicine in grado di eliminarla. I dottori, che usavano i rimedi più vari e fantasiosi, non sapevano che le forme di contagio erano tre – dal morso della pulce o del ratto infetto, alla tosse del malato, al toccarsi con le dita contaminate le mucose di
bocca o naso – ma avevano individuato le tre forme di peste che ne conseguivano.
A Mediolano l’ordinanza Visconti conteneva tutte le indicazioni sanitarie più aggiornate. In tutto il territorio i cittadini tenevano puliti i loro spazi, inchiodavano porte e finestre delle case infette, non si potevano comprare e vendere panni di lino e di lana usati. E l’epidemia a Mediolano e dintorni non fu così violenta come all’estero o in Toscana nel fatidico 1348, quando morivano quasi mille persone al giorno.
A Modoezia per via delle restrizioni sugli abiti usati, gli affari andavano a gonfie vele per lanaioli e tessitori, come Renzo dei Morigi. E per l’aumento dei morti anche ai becchini della famiglia Zevi.
Pur se non comparvero fosse comuni e quartieri infetti tutti sprangati, tuttavia la città si spopolò. Chi poteva era scappato nelle ville o nelle cascine dei parenti della Brianzia Martesana.
I Pelucchi – Ghino, Duccio e Vanisio – si chiusero nella loro salubre villa a sei miglia da Mediolano e si diceva che passassero il tempo nella lussuria più sfrenata, a somiglianza della compagnia fiorentina che il frate Boccaccio aveva immortalato nella sua celebre opera. In effetti molti, davanti alla prospettiva di poter morire da un giorno all’altro, si davano alla bella vita del cibo e del sesso senza freni.
Al contrario altri si rifugiavano nelle fede e nella preghiera di riparazione, credendo alla chiesa che riteneva la peste un castigo divino. Fu la scelta di Bartolomeo Zanata che, dopo la morte del vecchio Elia, donò tutte le opere d’arte che il padre aveva collezionato al santuario di San Giovanni e si ritirò nel monastero di San Pietro di Civate a fare penitenza. In effetti dei monaci di quell’abbazia nessuno morì di peste.
Franzio Baldironi con la sua numerosa famiglia tornò a rifugiarsi nel grande podere che aveva sulle sponde orientali del Lario. Qui nacquero i suoi nipoti e lui non rientrò più a Modoezia. I Bellinzoni se ne andarono a Desio, dove avevano comprato una villa con prati e stalle. I Montebretti chiusero le loro case di Modoezia e con i carri si trasferirono nelle cascine di Monte Vecchia, dove avevano poderi coltivati a uva. I Riboldi si ritirarono nella valle del Curone, presso la tenuta agricola di certi loro parenti, ma tornarono in città dopo il primo periodo di quarantena.
Gli Scotto erano invece partiti per Venezia, dove un loro zio aveva un palazzetto sul canal Grande: lì però la peste imperversava, dicevano che le gondole erano state tutte colorate di nero per il lutto delle numerose morti e nessuno capì mai perché quella famiglia fosse andata là.
I Gualteri si divisero: metà della famiglia con il giovane Piolo comprò una cascina alla rocca del Tignoso in Martesana, l’altra metà guidata dal notaio Gualterio partì con i carri diretta a ovest, verso il mare e la Francia. I primi tornarono poi in città, dei secondi non si seppe più nulla.
Ma ci furono anche quelli – e furono la maggioranza – che rimasero in città, o perché erano troppo poveri per spostarsi, o perché non avevano parenti che potessero ospitarli, o infine per scelta.
Baldo Buzzelli e Atto Dell’orto ad esempio erano rimasti, come pure Bonco Morigi. Erano in fondo fatalisti. Non avevano fiducia nei dottori, spesso contraddetti dai fatti. In definitiva, non volevano lasciare il loro mondo.
La casa Morigia si era spopolata. Molti servi se n’erano andati. I figli di Selvina – il notaio Rocco con la moglie Benetta e i gemellini, e Onorio con Nicoletta Bellioni – erano partiti per Casate Nuovo di Brianza, ospiti nella villa della sorellastra Simonetta e del suo marito Mantegazza. Renzo stava quasi sempre chiuso nei capannoni al Carrobbiolo. La vecchia Selvina era rimasta sola con una domestica appena. Spesso stava con Simone, il figliolo di Renzo e ogni tanto veniva a trovarla anche Belfiore, la figlia di Secondo e Colomba. Questi due erano restati in città e stavano anche loro ben serrati nella loro trattoria, piena di viveri, a coltivare l’orto e accudire gli animali.
Anche Bonco e la Bella non volevano lasciare la loro casa. Prima venivano spesso a trovarli Astinola e Maggio con il piccolo Nani, che era ancora il loro giocattolo preferito. Ma dall’inizio della epidemia le loro visite si erano diradate: tutti preferivano avere meno contatti possibili, specie se in casa c’erano bambini piccoli.
Allora Bonco era andato lui a trovarli e aveva fatto una proposta.
«Qui nel palazzo del Pratomagno siete insieme a tante altre famiglie. Troppa gente che va e che viene. Il contagio è più facile, lo dicono anche i dottori. Tornate ad abitare con noi. La casa è grande e si è svuotata. Staremo bene. È più prudente.»
Maggio accettò.
«Mi sembra una buona idea. Ci chiuderemo in casa a raccontarci storie come consiglia il libro del Boccaccio fiorentino.»

Philippe Daverio – Sto a casa e scrivo…

Philippe Daverio

Sto a casa e scrivo…
Aspettando che la grande scopa del Manzoni la smetta e sono felice di non essere anglicano upper class, ma banale cattolico afflitto da pietas;
Ho aspettato un po’ a scrivere, speravo di aver capito male.
Invece il Primo Ministro del Regno Unito, intendeva dire proprio ciò che ha detto: “Abituatevi a perdere i vostri cari”.
Boris Johnson si è laureato ad Oxford con una tesi in storia antica.
È uno studioso del mondo classico, appassionato della storia e della cultura di Roma, su cui ha scritto un saggio. Ha persino proposto la reintroduzione del latino nelle scuole pubbliche inglesi.
Mr. Johnson, mi ascolti bene.
Noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise, il suo vecchio e paralizzato padre, per portarlo in salvo dall’incendio di Troia, che protegge il figlio Ascanio, terrorizzato e che quella Roma, che Lei tanto ama, l’ha fondata.
Noi siamo Virgilio che quella storia l’ha regalata al mondo.
Noi siamo Gian Lorenzo Bernini che, ventiduenne, quel messaggio l’ha scolpito per l’eternità, nel marmo.
Noi siamo nani, forse, ma seduti sulle spalle di quei giganti e di migliaia di altri giganti che la grande bellezza dell’Italia l’hanno messa a disposizione del mondo.
Lei, Mr. Johnson, è semplicemente uno che ci ha studiato.
Non capendo e non imparando nulla, tuttavia.
Take care.

In 6 sotto un tetto…

Non ci capitava da anni di vivere in sei sotto lo stesso tetto, sette giorni su 7, 24 ore su 24. Pranzare insieme, cenare insieme. Solo la colazione è ad orari alterni, perché c’è chi pigra nel letto e chi sveglia tutti (papà) perché pensa di dover correre al lavoro o è ormai abituato alla luce di campagna che filtra dalle finestre.

Una mamma che scrive per lavoro fa fatica a stare davanti al computer anche per svago e forse per questo il famoso romanzo della vita non lo scriverò mai, così come quella guida turistica di luoghi belli di Toscana che ora sento anche un po’ miei.

Adesso però scrivo perché quella che stiamo vivendo è una situazione eccezionale, la troveremo sui libri di storia e potremo dire ai nostri nipoti (e voi ragazzi ai vostri figli) di avere vissuto.

Viviamo in sei sotto un tetto e in cinque davanti ad uno schermo, perché la tecnologia ci aiuta e ci fa restare connessi con il mondo.

Passare dal soggiorno dove Andrea è in call tra una pigna di cose da stirare è un’esperienza interessante: si parla in inglese, ma ognuno a proprio modo…un forte accento spagnolo, un gutturale olandese, un italiano più musicale.

Immagino non sia facile gestire un’azienda, stabilire dei turni, fare i conti con chi ha paura, rispondere ai clienti e pensare che ora sono chiusi anche loro e quindi ci sarà più tempo per le consegne.

La camera di Lorenzo è come sempre un gran casino (e scusate il francesismo). La tapparella a volte resta abbassata per ore, le piante sul davanzale attendono acqua da giorni, un secchio di cartacce raccolte (in un raptus di ordine e pulizia) devono essere gettate.

Solo lo scrittoio è un’oasi di ordine, così come tra i faldoni…mi chiedo come possa convivere in lui  il caos e la precisione, ma forse è bene così. Sei un preciso fantasioso, è ciò che ti rende speciale!

Beatrice vive di digitale e la camera che ora condivide con Camilla è la sua base: connessa dalle 9 alle 18 con una breve pausa pranzo in cui riemerge da lezioni di marketing inbound, comunicazione , strategy. Ho captato dieci minuti di lezione on line, praticamente arabo per una mamma che vivrebbe ancora di vecchi libri, penna e carta.

Eppure mi sono dovuta riconvertire anche io. Come giornalista il mio lavoro non è cambiato così tanto: sono abituata al mio scrittoio di caos creativo, ai miei appunti, alle telefonate, le interviste e poi giù a scrivere il prima possibile per non perdere l’emozione di una storia, un incontro, una notizia (di quelle buone che mi piacciono e che amo leggere sui giornali. Di quelle per cui in famiglia mi prendono in giro: “Mamma questa è una storia delle tue” (a volte non sotto intendono l’aggettivo “insulsa”).

Il lavoro di insegnante invece è cambiato eccome. Mi cimento con audio francesi per spiegare il discorso indiretto che poi invio diligentemente sui gruppi chat di classe, annoto in agenda sul registro elettronico. Per e mail ricevo i compiti da correggere, a volte mi lancio anche con dei video dalla cucina in cui mi sento più la Parodi che un’insegnante di liceo.

Domani proverò anche un collegamento skype, in fondo se Alberto ha potuto fare la sua lezione di pianoforte via skype con il mio computer connesso e appoggiato in modo pericoloso su sei bottiglie d’acqua per inquadrare le sue manine sulla tastiera chi ci ferma più?

Proprio Alberto mi sorprende. E’ autonomo per i suoi dieci anni. Oggi dovevamo costruire insieme un papiro egiziano con la colla vinavyl. Non ce l’ho fatta ancora, ma mi riprometto di farlo. Per il resto si organizza da solo tra i suoi mille quaderni di colori diversi che abbiamo recuperato a scuola, tra i video di saluto che le maestre inviano via wa sulla chat della mamme, tra i compiti assegnati di settimana in settimana.

Il pomeriggio è libero ed è tutto per lui. Sono convinta che ami questa dimensione familiare, il papà sempre a casa, i fratelloni (soprattutto Camilla) che ogni tanto si sconnettono per giocare con lui e rincorrerlo in salotto.

Il balcone è il mio e il suo mondo: lui corre con il monopattino, io ho bisogno di aria. Mi manca il parco, le chiacchierate con le amiche, lo sport, E allora perché non pulire e incerare a fondo il balcone pur di rimanere sei ore all’aperto?

Ora ho il balcone lucido come mai prima d’ora. Ho anche sgarrato ieri, fiondandomi in serra per scegliere qualche piantina nuova…ne avevo bisogno. Ho bisogno di capire che la primavera è arrivata, che la natura fiorisce, che la vita è bella. Nonostante tutto.

Camilla, il mio dolcissimo enigma. Anche tu segui lezioni on line, ma lo fai dalla tua “cuccia” personale: quel metro quadrato del soggiorno dove c’è la poltroncina di Alberto e un tepore strano e ancora misterioso che arriva dal pavimento. Ti mancherà, ne sono sicura, il tuo impegno nel volontariato, i bambini che incontri in ospedale, gli altri volontari con cui hai creato un bel gruppo, la tua amica Sofia con cui parli in video chat naturalmente chiusa in bagno e naturalmente all’ora di cena…

La cena invece è il momento che preferisco. Inizia dal pensare ad un piatto diverso dal solito perché la routine di una giornata in casa si può spezzare con un piatto di risotto primavera che ha sostituito in quattro e quattr’otto un triste minestrone. In fondo basta avere il tempo, una volta ogni tanto, di leggere le istruzioni di preparazione delle verdure del “minestrone leggerezza” per capire che con lo stesso sacchetto si può sfornare un risotto, sicuramente meno leggero, ma molto più invitante.

Alla fine le nostre giornate da reclusi funzionano con lo stesso principio. Possiamo trascorrerle stanche e monotone, secondo gli ingredienti dati, oppure possiamo trasformale in giornate speciali, colorate e inattese. Giornate con il profumo di un balcone fiorito, di una call addolcita da un’incursione a caccia di biscotti in cucina, di una serata trascorsa davanti alla tv a rivedere quella serie che vedevamo quando Alberto non era ancora nato e voi grandoni eravate poco più che adolescenti.

Mentre sferruzzo (non l’avrei mai pensato di riprendere in mano quella sciarpa che avevo iniziato 2 anni fa), vi osservo divertirvi sul divano, ritrovare quella complicità tra fratelli che forse un po’ avevate perduto. E sono felice. Tutto andrà bene

Rosella