LA FONTANA DEL DELFINO DI VILLA GUAITA

LA FONTANA DEL DELFINO DI VILLA GUAITA

Un racconto di Lilly Brusa

1

I partecipanti alla presentazione del volume “Inglesi a Cadenabbia tra Ottocento e Novecento” sciamavano a gruppetti dalla villa chiacchierando tra loro e dalla porta spalancata le loro voci arrivavano nell’atrio, mischiate al pesticcio dei passi sulla ghiaia.

Carla Ortelli, autrice del libro e relatrice principale, tese l’orecchio cercando di isolare un commento che la rassicurasse sull’esito della manifestazione. A cinquanta anni aveva ormai sufficiente esperienza per sapere quanto fosse facile che le parole di un convegno fossero dimenticate nell’attimo stesso in cui venivano pronunciate e più di una volta aveva pensato quanto sarebbe stato divertente distribuire alla fine di uno dei tanti congressi ai quali la sua professione di storica la obbligava un questionario sugli argomenti appena trattati, con l’obbligo di compilarlo e restituirlo subito, prima che la pubblicazione degli atti facesse da suggeritore.

I frammenti di conversazione andavano esaurendosi a mano a mano che gli ospiti scendevano lungo la scalinata che dal piano della villa portava a quello dell’ingresso senza che le arrivasse nulla da poter interpretare come un apprezzamento per il suo lavoro. Sospirò e, chiusa la cartelletta, uscì all’aperto.

Il giardino alle sue spalle era già in ombra, mentre sul lago di fronte il sole al tramonto proiettava uno specchio irregolare di luce e il riflesso era tanto forte da sentirne il calore a distanza. Distolse lo sguardo dal lago e guardò in basso. Nello spazio davanti al cancello d’ingresso c’era solo il custode. Lentamente cominciò a scendere la scala bordata di sassifraghe rosa, con gli occhi sulla macchia di sole che al centro aveva un riflesso fosforescente.

Fontana del delfino – Dolphin’s Fountain, stava scritto sul cartello bilingue dello slargo nel quale le due scalinate di destra e di sinistra s’incrociavano disegnando una nicchia romboidale dov’era alloggiata la fontana. La proprietà della villa, di recente adibita a ospitare convegni e matrimoni, si era preoccupata di indicare ogni particolare del giardino, come se prevedesse solo ospiti che non sapevano distinguere un cipresso da un alloro e tutto andasse spiegato, in un percorso didascalico che annullava il piacere della scoperta e il gusto di guardare un albero o un fiore o una della sculture delle quali il giardino era disseminato semplicemente per quello che apparivano.

Carla lesse il cartello, guardò la fontana, ma subito riabbassò lo sguardo sulla scritta. Qualcosa non quadrava. Rilesse, alzò gli occhi. Non c’era nessun delfino nella Fontana del delfino. Uno strano animale, che a prima vista poteva sembrare un cucciolo di drago partorito dalla fantasia di un illustratore di libri per bambini, era appoggiato sul bordo circolare della vasca. Forse c’era stato uno sbaglio o forse nel giardino c’era un’altra Fontana del delfino e chi aveva disposto i cartelli si era confuso e li aveva scambiati. Curiosa per natura, Carla avrebbe voluto accertarsene subito, anche perché le sarebbe piaciuto sapere a che specie appartenesse il lucertolone o drago che fosse. Le venne l’idea di tornare nella villa e chiedere di vedere il libro che era esposto in una vetrina dell’atrio: “Il patrimonio artistico della Villa Guaita”. Sicuramente conteneva una descrizione del giardino, ma il portinaio aveva già chiuso la metà del cancello e, guardando nella sua direzione, aspettava che lei scendesse. Dalla villa intanto veniva il rumore di un aspirapolvere, erano iniziate le pulizie. Scese in fretta la seconda rampa della scalinata e, prima di uscire, chiese al guardiano se l’indomani fosse in programma qualche manifestazione. Avrebbe sfruttato l’apertura per tornare alla villa e girare indisturbata per il giardino. “Domani pomeriggio, alle cinque c’è un matrimonio rispose l’uomo che le accostò il cancello alle spalle, sembrava avesse fretta.

 

Il giorno seguente, alle cinque del pomeriggio, Carla Ortelli parcheggiò l’auto prima della curva dopo la quale era visibile il cancello di Villa Guaita. Scese dalla macchina pensando al film un po’ sciocco, del quale non ricordava il titolo, che iniziava con una scena nella quale il protagonista s’imbucava a un matrimonio dichiarandosi alternativamente amico dello sposo e della sposa. “Non sarò amica di nessuno dei due”, si propose Carla oltrepassando il cancello e dirigendosi verso la scalinata di destra della Fontana del delfino, che le consentiva l’accesso alla parte alta del giardino.

Sfilando il piano della villa dal quale veniva un brusio di molte voci sul sottofondo di un brano di musica rock, prese una stradina che s’inoltrava tra gli alberi. La simmetria delle aiuole e l’alternarsi regolare dei grandi vasi di cotto che scandivano gli spazi davanti alla dépendance al piano dell’ingresso erano scomparsi e la vegetazione fitta la costrinse ad abbassarsi e a scostare rami per procedere. Accanto agli alberi non c’erano più i cartelli che ne indicavano la specie, come se quella zona non fosse destinata a essere visitata e il percorso didascalico inutile. Carla risalì fino al punto in cui la proprietà finiva e un muretto di sassi la separava da una stradicciola che le correva parallela, delimitata sul lato opposto dalla montagna. Da lì la villa non era visibile e anche la musica arrivava attutita. Si guardò attorno, ma non c’erano altro che alberi, cespugli e un sottobosco di felci cresciute frammiste agli ellebori. Sentì un rumore di passi, qualcuno camminava di là del muro e poco dopo comparve il custode. “Si è persa?”, le chiese, tirandosi dietro un cancelletto di ferro che, sfregando sui cardini, produsse un guaito che a Carla ricordò il verso di un gatto in amore. “Se scende per di là, si trova alle spalle della villa”, aggiunse indicando in basso.

“Grazie”, rispose Carla e stava per dire che preferiva tornare dalla parte dalla quale era salita, quando l’uomo la riconobbe. “Ma lei era qui ieri, per il convegno sugli inglesi”, e la guardò con diffidenza, squadrandola.

“Sì. Sono l’autrice del libro presentato”

L’uomo annuì. “Se non è venuta per il matrimonio, che cosa cerca?”.

“Volevo vedere se nel giardino c’è un’altra Fontana del delfino”.

“Poteva chiedermelo ieri”.

“Glielo chiedo adesso”.

“No, non c’è. C’è un’altra fontana, ma è la Fontana della dea. Da qui non può vederla. E’ dietro la villa”.

“Anche la Fontana della dea ha il suo cartello?”.

“Certamente”.

“E’ stato lei a piantare i cartelli con i nomi?”.

Il custode scosse il capo. “Li ho già trovati qui … non è tantissimo che sono stato assunto. Appena un anno … prima c’era un albanese e …”, e iniziò a raccontare di come era stato assunto, lui come custode e sua moglie per le pulizie, ma Carla non l’ascoltava più. Le sembrava improvvisamente difficile spiegarsi. Parlare del cartello che indicava un delfino dove non c’era un delfino, ma una specie di animale preistorico … cercare una conferma a che cosa? Che chi aveva piazzato i cartelli si era confuso? Si sentì sciocca. Che cosa era venuta a fare lì? “Mi farebbe consultare il libro che ho visto ieri nell’atrio … quello sul patrimonio artistico della villa … con la copertina azzurra …”, disse intercalando lunghe pause tra una frase e l’altra.

Il custode smise di parlare e, accompagnandosi con una scrollata di spalle, rispose soltanto: “Venga giù con me”.

“Va bene, scendo con lei”, concordò Carla, e il senso della frase le fu chiaro solo quando sentì la sua voce. Il suo pensiero era tutt’altro: andarsene e dimenticare la figuraccia di essere stata sorpresa in un luogo dove non avrebbe dovuto essere, ma si accodò al custode e insieme raggiunsero lo spazio davanti alla villa, dove gli invitati al matrimonio erano in attesa della cena.

Carla Ortelli aveva scelto Villa Guaita per la presentazione del suo libro non soltanto perché Cadenabbia era stato uno dei paesi prediletti da quegli inglesi che erano stati oggetto delle sue ricerche, ma perché vi aveva abitato una scrittrice per bambini, e lei aveva una grande ammirazione per chi sapesse trasmettere l’incanto di una favola con le parole scritte.

Peggie Guaita Short era stata anche un’acquarellista, con quel gusto tipicamente anglosassone per i colori ad acqua, ideali, pensava Carla, per rendere i paesaggi dilavati dalla pioggia della campagna inglese nella quale l’autrice aveva spesso ambientato le sue storie. Immaginò di guardare il lago con gli occhi di Peggie. Davanti alla punta di Bellagio, a mano a mano che il sole scendeva all’orizzonte, si stava delineando lo specchio di luce con la fosforescenza al centro che già aveva notato la sera prima. Un cameriere le si avvicinò con una vassoio di apertivi. “No, grazie”, disse lei ed ebbe l’impressione di avere addosso tutti gli occhi degli invitati. I suoi jeans e la camicetta bianca erano troppo visibili tra gli abiti eleganti, il suo abbigliamento era lì a denunciarla come un’intrusa. Arretrò nell’ombra di una camelia nel momento in cui il custode usciva dalla villa con un libro in mano. Gli fece un gesto alzando un braccio per richiamarne l’attenzione e lui rispose indicando la scala della “Fontana del delfino. Poco dopo, si trovarono a scendere appaiati, entrarono nella dépendance e finalmente Carla ebbe davanti le fotografie della villa scattate nel 1936.

 

2

Per abitudine professionale, Carla Ortelli era più abituata a riferire i fatti nella loro realtà piuttosto che a celarli nella finzione romanzesca, ma quella sera stessa, rientrata a casa dopo aver guardato le foto della villa e rileggendo l’unico libro di Peggie Guaita Short che era riuscita a reperire sul mercato antiquario, rimase sconcertata dalla storia che chiudeva la raccolta. I riferimenti erano così precisi che la prese il sospetto che l’autrice avesse voluto, con quell’ultima favola, scrivere il suo addio a Villa Guaita, nella quale aveva vissuto per molti anni.

Ma c’era anche dell’altro nella vicenda di Scott, il bambino protagonista, e aveva a che fare con la Fontana del delfino la quale, nella foto del 1936, mostrava un delfino sopra la vasca di raccolta. L’ambientazione della favola era di tre anni più tardi. Scriveva Peggie: “Scott compiva dieci anni proprio il giorno in cui sua zia Margaret andò a prenderlo nel collegio di Edimburgo dove stava dalla morte della madre, che aveva seguito di poco quella del padre. Unica parente che si fosse dichiarata disposta a occuparsi di lui e quindi nominata sua tutrice, Margaret era arrivata senza preavviso per portarlo con sé in Italia dove viveva in una villa su un lago che Scott non aveva mai sentito nominare, ma che, come gli comunicò il direttore al momento del congedo: “Sei fortunato, Scott. Vai a vivere in un posto meraviglioso, nella terra dove, come dice Goethe, fioriscono i limoni”.

“Sì, ma anche i fiori di brina in inverno”, commentò zia Margaret.

Il solo lago sul quale Scott fosse mai stato era il Loch Ness, nei cui pressi il collegio aveva una mansion dove i convittori passavano l’estate e il giorno di settembre nel quale la zia arrivò erano rientrati da poco dalla villeggiatura. Si immaginava quindi un piccolo lago dalle sponde brulle e piatte e grande fu la sua meraviglia quando il treno cominciò a costeggiare uno specchio d’acqua chiuso tra le montagne che in alcuni punti scendevano a strapiombo, con le rive disseminate di paesi e e di grandi ville e giardini dai quali spuntavano palme e cipressi altissimi.

Seduta davanti a lui, zia Margaret gli indicò i nomi dei paesi a mano a mano che ne sfilavano le stazioni, chiedendogli di ripeterli e correggendogli ogni volta la pronuncia. Finché il treno si fermò in una stazione il cui nome Scott dovette ripetere quattro volte prima che la zia si dichiarasse moderatamente soddisfatta della sua pronuncia: Varenna. Da lì presero un battello che li portò a Cadenabbia, sulla riva opposta e finalmente erano arrivati. Il viaggio da Edimburgo era durato una settimana.

La storia proseguiva raccontando dei primi giorni di Scott a Cadenabbia, della sua meraviglia per le grandi finestre dalle quali la luce inondava le stanze della villa, facendo brillare i mosaici dei pavimenti, riflessa dalle specchiere che si palleggiavano le immagini da una parete all’altra, moltiplicandole all’infinito. C’era in particolare una stanza che lo aveva colpito più delle altre. Una specie di grotta delimitata da colonne di marmo e da volte contornate di stucchi bianchi che disegnavano ghirigori come la glassa su una torta. Scott la battezzò la “grotta dello zucchero filato” e zia Margaret approvò.

La sua camera era al primo piano e lì cominciò a trascorrere lunghe ore con la zia che, per quel primo anno, aveva deciso di seguirlo lei negli studi, giudicando che prima di essere iscritto a una scuola dovesse imparare l’italiano. A volte Margaret acconsentiva a far lezione in giardino, su un tavolo di pietra sistemato davanti a una fontana abbellita dalla scultura di un delfino dalla quale partiva la scala che scendeva verso il piano della strada. E un giorno di metà ottobre, stavano appunto ripetendo la coniugazione del verbo “andare”, quando la zia s’interruppe. Nella fontana c’era qualcosa di strano che non aveva mai notato. Sembrava un grosso sasso rivestito di uno strato fluorescente dai riflessi verde – bluastri.

“E’ mio”, disse Scott. “L’ho raccolto sulla riva del Loch il giorno prima di tornare a Edimburgo. E’ bellissimo e non volevo lasciarlo”.

“Ma dove l’hai tenuto finora?”.

“Sotto il letto, ma stamattina ho visto che sono comparse delle screpolature, mi è venuta paura che si stia seccando e magari si romperà. Allora, l’ho messo qui, in acqua, dove posso tenerlo d’occhio. Non ti dispiace, vero zia Margaret?”.

“No, Scottie. E’ bellissimo. Lasciamolo pure qui. E’ un bellissimo sasso, anche se non saprei dirti di che minerale si tratti”.

Il giorno seguente, quando Margaret e Scott scesero a studiare in giardino, trovarono che il sasso, come l’aveva chiamato lei, si era rotto e una specie di anatroccolo dalle piume verdognole nuotava nella vasca. L’esserino faceva ondeggiare la testa prima da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra e sembrava che gli occhi non vedessero nulla.

“Un neonato va nutrito”, disse Margaret. “Forza, Scottie! Come on … andiamo a caccia di lombrichi e insetti”, e si avviò verso la parte alta del giardino.

Bastò scavare un po’nel terriccio del sottobosco per mettere allo scoperto larve d’insetti e vermiciattoli che impastarono con gelatina di brodo. Prepararono un pastoncino che l’anatroccolo ingoiò in un solo boccone. Scott guardò, incuriosito, il bolo che si evidenziava scendendo lungo il collo magro, poi alzò lo sguardo sulla zia: “Può restare, vero zia Margaret?”.

“Finché deciderà lui di andarsene”.

“Quando succederà?”.

“Quando sarà adulto a sufficienza per volare”.

Scott sentì un groppo stringergli la gola, ma riuscì a ricacciare indietro le lacrime. “Lo convincerò a rimanere”, rispose e allungò una mano ad accarezzare le piume verdi. L’anatroccolo gli rispose emettendo un suono prolungato, come un to-tu-tooo dalla tonalità così bassa che sembrava impossibile uscisse da un corpo tanto sottile. “Che ne dici se lo chiamo Duckling?”.

“Approvato”.

Scott si assunse l’obbligo di provvedere ai suoi pasti e, siccome zia Margaret disse che gli avrebbe fatto bene il pesce, prese l’abitudine di scendere sulla riva del lago all’ora in cui i pescatori tornavano a riva. Sceglieva i pesci più piccoli, in genere alborelle, e le prime volte non spiaccicava una parola, tendeva i soldi per pagare e rispondeva al saluto con un sorriso. Poi prese coraggio, cominciò a pronunciare le prima parole in italiano e in capo a due settimane conosceva il nome di tutti i pescatori e specie e abitudini di tutti i pesci del lago: persici, salmerini, tinche scardole.

Duckling intanto cresceva, anche se a ritmo piuttosto lento e questo aveva fatto dire a Margaret che probabilmente apparteneva a una specie longeva. Ora usciva dalla vasca della fontana per zampettare un po’ nel prato e fuori dall’acqua aveva un’andatura buffa, caracollante. Muoveva sempre la testa con quelle strane oscillazioni e, quando vedeva Scott, emetteva quel suono che con il passare del tempo si era fatto ancora più profondo, come una voce che risalisse da un pozzo scavato nelle viscere della terra.

Scott prese l’abitudine di portarlo a fare il bagno nel tratto di lago davanti alla villa. Aspettava che il litorale fosse deserto e, assicuratolo con una catenella che gli faceva da guinzaglio, lo faceva nuotare avanti e indietro, mentre lui lo seguiva correndo sul greto.

Passò l’autunno, venne l’inverno e con la primavera le penne diventarono più lucenti, i colori si intensificarono e di notte mandavano gli stessi riflessi fosforescenti dell’uovo dal quale era nato. Alla base del collo gli comparve una specie di cresta. Aveva raggiunto le dimensioni di un grosso pollo e Scott faticava a trattenerlo al guinzaglio, soprattutto quando immergeva testa e collo e nuotava sott’acqua. La zia cominciò a preoccuparsi e gli vietò di portarlo a nuotare nel lago. Aveva paura che lo trascinasse in acqua.

 

“Era tradizione che il dieci giugno alla villa si facesse festa per l’onomastico di zia Margaret che, sposando un italiano, si era convertita al cattolicesimo.

Da quando era rimasta vedova, la data era passata sotto silenzio, ma con l’arrivo di Scott, zia Margaret aveva deciso di tornare a festeggiare e aveva spiegato al nipote, che non sapeva che cosa fosse un onomastico, che insieme a lei quel giorno avrebbero ricordato una regina scozzese, Margaret, e quindi sarebbe stato un po’ come il giorno di Saint Andrew, patrono di Scozia.

Per tutto il giorno, nella villa c’era stato un gran andirivieni di invitati, in massima parte inglesi che vivevano a Cadenabbia o nei paesi vicini, e il pranzo di mezzogiorno si era prolungato fino al tardo pomeriggio. Gli ultimi ospiti si stavano congedando dalla zia, che aveva tenuto Scott accanto a sé come l’avesse cucito alla gonna, quando Luigi, il giardiniere, era comparso trafelato sul cancello, gridando: “E’ scoppiata la guerra con l’Inghilterra”.

 

Già da quella sera, zia Margaret cominciò a considerare l’ipotesi di lasciare la villa e il primo pensiero di Scott fu per Duckling. Chi si sarebbe occupato di lui se, come sentì dire alla zia mentre parlava al telefono con una sua amica, loro si fossero trasferiti in Svizzera?

Era vero che la zia, vedova di un Guaita, era a tutti gli effetti cittadina italiana, ma aveva sempre conservato anche la sua nazionalità inglese e questo ne faceva una nemica. E poi c’era lui, Scott.

Nell’incertezza sul da farsi, passarono circa due mesi durante i quali Margaret e suo nipote vissero praticamente prigionieri all’interno della villa. Forse, volevano far dimenticare la loro presenza alle autorità di Cadenabbia. Poi, una mattina di agosto, alla zia fu notificato il sequestro dei beni e l’invito a lasciare i territorio italiano entro quarantotto ore.

“Uccideranno Duckling”, gridò Scott quando la zia gli comunicò che dovevano prepararsi a partire, e si precipitò in giardino piangendo. Non fu più possibile staccarlo dalla fontana dove Duckling stava acquattato nelle ore più calde, con la testa sotto lo zampillo che usciva dalla bocca del delfino. Gli parlava sottovoce e il mostriciattolo gli rispondeva con quel suono di tre note che riempiva il giardino come un lamento funebre, continuo e angosciante.

Margaret pensava che Scott dovesse sfogare il suo dolore e lo lasciò fare, ma quando venne buio, e non lo vide rientrare, scese anche lei alla fontana e si sedette sul bordo della vasca, incurante degli spruzzi d’acqua che, rimbalzando sul capo di duckling, le schizzavano sulla gonna.“Non possiamo fare nulla per lui, se non dargli la libertà. Nel lago troverà da solo di che nutrirsi”, disse dopo un lungo silenzio. “E dobbiamo farlo adesso, perché domani sarebbe tardi”, aggiunse. “Forza, Scottie. Metti il guinzaglio a Duckling”, e si alzò. “Vado a prendere un cardigan perché sul lago a quest’ora c’è molta umidità. Vai ad aspettarmi davanti al cancello”.

La riva del lago era deserta. Margaret sciolse la lancia dalla bitta e, aiutata dal nipote, la spinse in acqua. Poi si mise ai remi, puntando al largo, in direzione di Bellagio. Scott si sedette a prua, tenendo Duckling tra le gambe divaricate. L’anatroccolo guardava a destra e a sinistra, allungando il collo verso l’acqua ed emettendo il suo to-tu-too in un richiamo continuo.

“Immersa una mano nell’acqua, Scott l’abbandonò al movimento della barca. Zia Margaret remava a un ritmo lento, ma costante e, ascoltando il rumore dei remi tuffarsi nell’acqua, Scott pensava a quanto sarebbe stato bello se il tempo si fosse fermato in quell’istante preciso. Sarebbero rimasti sulla barca, tutti e tre, isolati da tutto, finché la guerra sarebbe finita e sarebbero potuti tornare insieme alla villa. Guardò le luci di Cadenabbia che si allontanavano. Tremava, e l’umidità del lago gli appiccicava addosso il cotone leggero della camicia.

Quando furono davanti alla punta di Bellagio, ma ancora al largo, zia Margaret smise di remare e, invertendo i remi, fermò la barca. “Lascia libero Duckling”, ordinò con un tono di comando che lo sorprese. Anche quando si imponeva con un divieto, la zia lo faceva sempre con gentilezza suadente, ora invece la sua voce aveva un’intonazione dura.

Scott sganciò il guinzaglio di catena e, spingendo con entrambe le mani, avvicinò l’anatroccolo al bordo della barca. Duckling si tuffò, immergendosi senza rumore. Riaffiorò subito e cominciò a nuotare attorno alla barca e sembrava non volersi allontanare. Uno, due, tre giri … Non era difficile distinguerlo perché le sue piume mandavano riflessi fosforescenti che si proiettavano, rompendosi in una miriade di cristalli luminosi, nella scia di onde che l’accompagnava. Quattro … cinque giri … Duckling si stava inabissando e trascinava con sé la fosforescenza che, come una palla luminosa, scendeva velocemente verso il fondo.

Scomparve”.

 

Il mattino seguente, Scott sentì che, parlando al telefono, la zia chiedeva una dilazione di ventiquattrore per la partenza, adducendo che suo nipote aveva la febbre alta e sarebbe stato pericoloso farlo viaggiare.

“Dal tono con cui, chiedendo la telefonata, disse: “Grazie, signore”, Scott capì che aveva ottenuto quello che chiedeva e infatti, riagganciata la cornetta al muro, la zia gli strizzò l’occhio dicendo: “Avanti, Scottie. Non mi sembra che tu sia così malato da non potermi dare una mano”, e lo invitò a seguirla in quella che Scott chiamava la “grotta dello zucchero filato”. Salita in piedi su una sedia, tolse da una mensola la scultura di uno strano animale che assomigliava a Duckling. “E’ un drago cinese e ha bisogno di prendere un po’ d’aria e anche d’acqua. Può essere un degno rappresentante di Duckling”, disse passandoglielo.

In giardino, trovarono che Luigi aveva già scalpellato via il delfino dalla fontana e, rimestando cemento in un secchio, aspettava di fissare il drago al suo posto. Scott rimase a seguire il lavoro, mentre la zia rientrò in casa, non senza aver ordinato di portare il delfino spodestato nel capanno degli attrezzi nella parte alta del giardino.

Puntuali, alle nove del mattino successivo, Margaret e Scott presero il battello per Varenna. Attraversarono il lago e salirono sul treno diretto a nord, in direzione della Svizzera. Quando passarono il confine, Margaret prese la mano di Scott, dicendogli: “Torneremo, Scottie, e sarà tutto come l’abbiamo lasciato perché duckling custodirà la nostra casa dalla fontana del delfino e la nostra memoria tra le acque. Ogni tanto riaffiorerà dall’orrido nel quale ha sicuramente trovato rifugio e chi in quel momento starà guardando il lago, è possibile che veda una fosforescenza sul pelo dell’acqua. Non saprà a cosa attribuirla, ma noi sappiamo che è’ il nostro duckling, Scottie … che ci sta aspettando”.

 

Carla Ortelli chiuse il libro di favole di Peggie Guaita Short e guardò l’orologio. Mezzanotte. Si ricordò che non aveva cenato.

L’indomani scese a Como, alla biblioteca comunale, e chiese la raccolta di Gazzette Ufficiali del 1940.

Non fu difficile trovare l’indicazione che cercava.

“Il prefetto della Provincia di Como

Visti gli articoli 56 e sgg. 295 e sgg. del Regio Decreto 8 luglio 1938 – XVI, n. 1425, che approva il testo della Legge di guerra,

Visto … in considerazione dello stato di guerra attuale dell’Italia e con la Francia e la Gran Bretagna, dichiara applicabili le misure previste dalla sopra riferita legge di guerra.

Ritenuto che il suddito inglese Short Peggie fu John, vedova Guaita, è da considerarsi di nazionalità nemica, decreta …

Sono assoggettati a sequestro tutti i beni immobili appartenenti al suddito inglese Peggie Short ved. Guaita esistenti nel territorio di questa provincia ed è nominato sequestratario L’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (RGELI) con sede in Roma, via dei Sabini, n.7

Come, 5 agosto 1940 – XVIII

Il prefetto Trinchero